LA MIA PRESENTAZIONE IN AULA DELLA LEGGE SUI LAVORATORI DIGITALI
A tutti noi è capitato di vedere persone di ogni età in bicicletta, con un cubo colorato in spalla, pedalando ai margini della strada. Ragazze e ragazzi che vogliono mantenersi durante gli studi ma anche adulti che hanno bisogno di quei soldi in più per arrivare dove lo stipendio, quando c’è, non basta.
Pedalare, pedalare, pedalare… correre veloce su e giù per la città, correre veloce per prendere feedback migliori e pedalare ancora. Anche sotto la pioggia, tra lo smog che diventa nebbia. Paga oraria o a cottimo, non importa, devi comunque essere tra i migliori. Loro sono i riders, i corrieri al tempo degli algoritmi.
L’iperflessibilità dichiarata dietro a tutto questo è solo fittizia e a dircelo sono gli stessi lavoratori digitali.
In teoria, il fattorino lavora quando vuole. In realtà le imprese che operano in questo mercato fanno uso di un algoritmo che classifica i fattorini e dà loro accesso al programma in differenti orari.
Nel 2019 non possono più esistere lavoratori di serie A e lavoratori di serie B. È per questo che bisogna regolamentare subito la cosiddetta “gig economy” ed arginare la naturale tendenza del profitto a prevaricare su tutto. Dobbiamo rispettare la libertà di iniziativa economica, tutelata dall’articolo 41 della Costituzione, – non va mai dimenticato che sono le aziende a dare lavoro – senza mai spegnere il faro della dignità del lavoro e del lavoratore.
Stiamo subendo un balzo all’indietro nel tempo dove tutti i meccanismi di esclusione, emarginazione e controllo conosciuti nel secolo scorso ci fanno correre il rischio di creare un nuovo sottoproletariato digitale a cui si agganciano nuovi populismi.
Sì perché la tecnologia può annientare o liberare. Può liberare il tempo o può annientarlo, riducendolo a pezzi da incastrare in maniera diversa ogni giorno. Spesso, si utilizza questo richiamo all’algoritmo come ad un’entità inafferrabile, quando invece c’è molto di umano nell’algoritmo, c’è il controllo della prestazione. Un controllo molto penetrante, come se il lavoratore obbedisse a ordini invisibili e, per questo, paradossalmente più disciplinanti. Si crea una classifica interna sulla base della disponibilità, della velocità, del numero di consegne effettuate, della valutazione del cliente finale. E questo sposta sul lavoratore gran parte del rischio dell’impresa.
Quelle pedalate sono tempo e fatica. Quel tempo e quella fatica vanno tutelate. Spetta a noi assicurare quella tutela.
Nel nostro Paese, l’INPS ha certificato che nel 2018 il numero di gig workers era più alto tra gli adulti, a conferma del fatto che la distribuzione dei pasti a domicilio non è un lavoro solo per giovani.
Ai gig workers dobbiamo assicurare dignità, riconoscendo loro una serie di diritti tra cui quello a godere di tutele assicurative e previdenziali, ad accedere alla formazione e all’informazione sulla attività che svolgono e, soprattutto, ad un salario parametrato a quello previsto dai contratti collettivi, vietando la retribuzione a cottimo. Il divieto del cottimo, infatti, evita ad esempio che il fattorino accetti un numero troppo alto di consegne per massimizzare il compenso, mettendo così a rischio la propria incolumità. Perché essere pagato a consegna, per un fattorino in bicicletta, significa dover correre più veloce e correre dei rischi per fare più consegne possibile.
È in ragione di ciò che oggi, qui, stiamo discutendo questa proposta di legge, intitolata “Norme per la tutela e la sicurezza dei lavoratori digitali”. Di tutti i lavoratori digitali, che sono sempre di più, che per lavorare utilizzano un’applicazione, una piattaforma digitale.
Il nostro diritto del lavoro, infatti, è caratterizzato dalla nota e pressoché rigida distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo (con tutte le sue coniugazioni) che porta con sé un’altra distinzione: quella tra lavoro tutelato e lavoro non tutelato o, meglio, meno tutelato.
È con questo contesto che dobbiamo fare i conti quando ci troviamo di fronte a “nuove” forme di lavoro che, con l’ausilio della tecnologia, forniscono servizi attraverso un’applicazione sullo smartphone, richiedendo una prestazione lavorativa non più continuativa ma on demand.
Non che dietro queste modalità di lavoro non possa celarsi la subordinazione, che c’è anche quando l’ordine di lavoro viene da un terzo, con le prerogative della piattaforma molto affini a quelle di un datore di lavoro tradizionale. Alcune tutele devono essere sempre garantite e non possono essere spente. La nostra opinione è preceduta da tante voci e tanti esempi positivi in tutta Europa.
A Berlino, per esempio, i riders di Foodora sono tutti dipendenti e possono godere di malattie e ferie pagate. In Spagna, il Tribunale di Valencia ha ritenuto quello operante tramite piattaforma digitale lavoratore subordinato stabilmente inserito “nell’ambito dell’organizzazione e direzione dell’impresa”.
Nel nostro paese, va sostanzialmente in questo senso anche la recentissima sentenza della Sezione Lavoro della Corte di Appello di Torino n. 26 del 4 febbraio 2019 che ha ricondotto il lavoro dei cd. “riders” nella figura delle collaborazioni autonoma ma etero-organizzata, tipologia a metà tra lavoro subordinato e autonomo. In applicazione del Jobs Act, infatti, i Giudici torinesi hanno stabilito che i “riders” sono collaboratori a cui spettano tutele tipiche del lavoro subordinato, in particolare in tema di “sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (quindi inquadramento professionale), limiti di orario, ferie e previdenza”.
Una vittoria importantissima se si considera che la via del giudizio è stata per i lavoratori il tentativo estremo preceduto da una significativa forma di protesta.
E come a Torino, nel resto dell’Europa e del mondo c’è una linea rossa che attraversa e tiene insieme Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda, Regno Unito e Spagna che sta iniziando a toccare altri Paesi in Europa come Grecia, Polonia e Svezia e unisce un gruppo ancora piccolo (statisticamente e in fatto di numeri) ma chiaramente rivolto a rivendicare diritti e che potenzialmente può diventare molto più forte di oggi.
Questo stato delle cose impongono alla politica una seria riflessione: se è giusto che tali “nuovi lavori”, e tutti quelli che nasceranno dal digitale, possano essere esclusi dalle tutele, in ragione di categorie se non desuete (lavoro autonomo/subordinato), almeno da ripensare.
Siamo davvero di fronte ad una figura che può essere la leva per rivoluzionare il diritto del lavoro nato, come noto, dalla tensione tra lavoro e capitale e volto a mettere un argine allo sfruttamento delle persone. Ed è compito impellente della politica quello di governare il fenomeno, di indicare una direzione, di indirizzare l’impianto del diritto del lavoro per non sacrificare i diritti sull’altare della tecnologia.
La proposta di legge che abbiano licenziato in Commissione, che oggi discutiamo in quest’Aula e di cui ho l’onore di essere relatrice dimostra, a nostro avviso, la consapevolezza delle problematiche alle quali ho fatto cenno.
La P.L., infatti, nell’ambito delle competenze della Regione di cui all’art. 117, comma terzo della Costituzione, decide di non trattare il tema della qualificazione dei rapporti di lavoro dei “lavoratori digitali” in termini di autonomia/subordinazione (cfr. art. 1, comma 3: “indipendentemente dalla tipologia e dalla durata del rapporto di lavoro”), ma prende le mosse da un principio diverso e, secondo noi, imprescindibile: la dignità del lavoro e la sua tutela passano per il rispetto della persona e non possono dipendere dalla qualificazione giuridica del relativo rapporto. Perché tutti hanno diritto alla “tutela della salute”, alla “sicurezza del lavoro” e ad un “lavoro sicuro e dignitoso”.
La P.L., quindi, intende disegnare una nuova “alleanza” tra aziende, lavoratori e pubblici poteri: quello della “economia leale” nell’ottica dello sviluppo responsabile della nuova economia e grazie al dialogo con le parti sociali. Ne è prova il fatto che l’attuale P.L. è il frutto di un confronto che, oltreché nel corso delle audizioni, è stato attuato attraverso il coinvolgimento di chi fosse interessato a fare proposte mediante il sito della Regione.
Ciò anche perché si stima che il Lazio, soprattutto nell’area della Città Metropolitana di Roma, conti circa 45.000 “gig workers” (non solo riders).
Anzitutto, è importante notare come, in diverse disposizioni, si cerchi e si attui il dialogo con le parti sociali attraverso gli Enti bilaterali e il richiamo ai contratti collettivi.
Alle tutele “classiche”, che siamo abituati a conoscere, la P.L. affianca nuovi strumenti di tutela. Sto parlando della parità di trattamento e della non discriminazione nel rating reputazionale. L’art. 7 della P.L., infatti, stabilisce con grande lucidità che la piattaforma digitale deve garantire la trasparenza delle modalità con cui l’algoritmo mette in relazione il lavoratore digitale e l’utente del servizio. La P.L., quindi, non manca di considerare che questa nuova figura di lavoratori è sottoposta al giudizio, al feedback, dell’utente del servizio.
L’impianto delle tutele, poi, è accompagnato da sanzioni a carico delle piattaforme digitali che violino le disposizioni in tema di tutela della sicurezza e della salute, di tutela assistenziale e previdenziale, di compenso e di indennità speciali e che non rispettino gli obblighi di informativa da fornire ai lavoratori e le norme sulla parità di trattamento e sul rating reputazionale.
La P.L. intende attuare la “nuova alleanza” di cui poco fa ho parlato anche attraverso gli strumenti della “Anagrafe regionale dei lavori digitali” e del “Registro regionale delle piattaforme digitali” attraverso i quali lavoratori e piattaforme, se in regola con le prescrizioni contenute nella P.L., possono accedere al piano di interventi annuale con cui la Regione Lazio intende sostenere campagne informative sui diritti, azioni di formazione su salute e sicurezza del lavoro, forme di tutela integrativa previdenziale e assistenziale.
Inoltre, è importante la istituzione della Consulta regionale del lavoro digitale (alla quale partecipano l’Assessore al Lavoro, l’Assessore allo Sviluppo Economico e soggetti pubblici e privati del settore dell’economia digitale) quale strumento di consultazione periodica sui risultati degli interventi regionali, di studio e approfondimento in materia di lavoro digitale e di monitoraggio dello stato dell’arte della legislazione e dell’azione regionali.
Una P.L., insomma, che, nella sua semplicità, è davvero dirompente negli obiettivi e nei contenuti, dando risposte concrete ai lavoratori della “Gig Economy” con una dotazione finanziaria di 1 milione di euro per gli anni 2019 e 2020.
In conclusione, care colleghe e colleghi, non possiamo non dirci che va sicuramente riconosciuto al Presidente Nicola Zingaretti, all’assessore Claudio Di Berardino e alla Giunta tutta, il merito di essere stata la prima istituzione pubblica in Italia a prendere in reale considerazione un tema di grande attualità che ha assoluta necessità di essere regolato e normato. E come ha detto Papa Francesco a Genova, nel maggio 2017, davanti a tantissimi lavoratori dell’Ilva di Cornigliano «Bisogna guardare senza paura e con responsabilità alle trasformazioni tecnologiche dell’economia e non bisogna rassegnarsi all’ideologia che sta prendendo piede ovunque, che chi non lavora sarà mantenuto da un assegno sociale. Attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale: quando non si lavora e si lavora male è la democrazia ad entrare in crisi».
Credo che queste parole siano le più giuste, le più equilibrate e al tempo stesso le più dure per risvegliare la politica dal torpore in cui vive. Oggi è nostro il compito di offrire condizioni di lavoro degne in un settore dove non c’è dignità.